La Storia è un balcone da cui guardiamo sempre lo stesso orrore, che cambia solo uniforme e lingua.


Franz Kafka: Un respiro a Merano
Siamo nella primavera del 1920. Un uomo dalla costituzione fragile, il torace stretto, cammina lungo l’argine del Passirio. È il dottor Franz Kafka. È giunto a Merano per un’esigenza meccanica: i suoi polmoni sono guasti, la tubercolosi avanza, serve ripararli con l’aria. Il suo soggiorno è un transito provvisorio, un continuo spostamento di stanze: prima viene registrato all’Hotel Emma, poi, cercando una quiete che non esiste, si trasferisce alla Pensione Ottoburg, nel distretto di Maia Bassa.
Merano appare come un’entità geografica indefinita: i documenti dicono che è Italia, la memoria dice che è Austria, ma la città rimane sospesa in un vuoto mitteleuropeo, indifferente ai confini tracciati sulle carte.
Le giornate dell’uomo sono un protocollo medico: la “cura dell’aria”. Giace sul balcone, avvolto in strati di lana come un oggetto da conservare, e fissa le pareti di roccia delle montagne che recintano la valle. Compila rapporti epistolari a Milena Jesenská; in essi documenta minuziosamente la sua condizione di estraneità. Egli è un ebreo di lingua tedesca, un elemento che non trova incastro in nessun ingranaggio nazionale.
Egli nota che la città è popolata da altri come lui. La borghesia ebraica di Praga e Vienna frequenta questa valle come si frequenta una sala d’attesa di lusso. Qui la Legge non è ancora ostile; esistono sanatori conformi alle regole kosher, esiste una tolleranza formale. Kafka osserva questa comunità che esegue i rituali della normalità e della cultura, ignara che il meccanismo della Storia sta già lavorando per renderli obsoleti.
L’ombra della Grande Guerra
L’osservatore Kafka, nel 1920, percepisce che quelle montagne sono ancora calde di un attrito recente. Solo pochi anni prima, il sistema logico del mondo era collassato.
Nel 1914, il dialogo tra le cancellerie si era interrotto, sostituito dal rumore meccanico dell’artiglieria. L’Impero Austro-Ungarico, una struttura complessa che teneva insieme popoli diversi come in un archivio ordinato, si era disintegrato sotto la pressione di forze irrazionali: i nazionalismi. La minaccia non fu evitata perché nessuno comprese che tracciare linee su una mappa comporta la dissezione dei corpi che vi abitano sopra. La diplomazia divenne muta; la procedura passò alle armi.
Merano subì una metamorfosi funzionale. Gli alberghi, progettati per il piacere e la danza, vennero requisiti e riclassificati come lazaretti. I treni non scaricavano più villeggianti, ma materiale umano danneggiato proveniente dal fronte dell’Ortles. La città di cura divenne un deposito di carne dolente. La convivenza si incrinò: il vicino di casa fu improvvisamente catalogato come “nemico” in base alla lingua che pronunciava, trasformandosi da concittadino a sospetto.
Il Trauma delle “Opzioni”: L’obbligo di autodefinizione
Prima che il secondo conflitto mondiale si manifesti, accade un evento di pura burocrazia kafkiana: le Opzioni del 1939.
Due autorità supreme, Hitler e Mussolini, stipulano un contratto per rettificare l’anomalia etnica dell’Alto Adige. Agli abitanti viene notificato un ultimatum, un modulo da compilare: o si sceglie di essere cittadini del Reich, abbandonando la terra (categoria Optanten), o si sceglie di restare, accettando la cancellazione della propria identità culturale (categoria Dableiber).
L’esistenza umana viene ridotta a una scelta binaria amministrativa. Le famiglie vengono sezionate dalla decisione; il sospetto entra nelle case come una nebbia.
È qui che si manifesta la simmetria con la condizione palestinese. Come i tirolesi furono spostati da decisioni prese in stanze lontane, così i palestinesi nel 1948 e nel 1967 si trovarono di fronte all’assurdo giuridico: fuggire per preservare la vita fisica (diventando numeri in un campo profughi) o restare per preservare la terra (diventando corpi estranei sotto occupazione). È la condanna a dover abbandonare la propria casa per poter continuare a essere se stessi.
La frattura e il Tradimento: La procedura di eliminazione
Con l’occupazione nazista diretta dopo l’8 settembre 1943, la Zona d’Operazioni delle Prealpi viene annessa al Reich. La procedura di eliminazione degli ebrei, fino ad allora teorica, diventa esecutiva.
Tutto accade in prossimità del Kurhaus. Questo edificio, simbolo dell’estetica e dell’armonia, rimane immobile mentre la logica si inverte.
Contrapposto al palazzo della bellezza, dove la musica suonava fino a poco prima, si attiva il meccanismo dell’arresto. Il 16 settembre 1943, gli ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni. Non sono più residenti, sono detenuti.
La logistica prevede una tappa intermedia: vengono stoccati nella Casa del Balilla, edificio del regime locale. Successivamente, vengono caricati su convogli diretti al Lager di Reichenau, vicino a Innsbruck, un centro di smistamento. Da lì, mesi dopo, nel 1944, la pratica verrà evasa definitivamente con il trasferimento ad Auschwitz. Il silenzio delle montagne non offre protezione, ma sigilla l’isolamento.
La Storia attuale: Le Dolomiti come specchio
Nel tempo presente, nelle province dolomitiche, l’assetto sembra essersi stabilizzato.
A Merano, la comunità ebraica sussiste, ridotta nei numeri ma funzionante. La Sinagoga è aperta. Gli ebrei sono integrati nel sistema sociale, parlano le lingue del posto. La ferita del passato è segnalata da piccole placche di ottone nel selciato, le pietre d’inciampo: note a piè di pagina che ricordano chi è stato cancellato.
A Trento e nei territori limitrofi, si registra la presenza di un altro gruppo: i palestinesi. Non una comunità storica, ma individui sparsi — studenti, lavoratori — inseriti nel tessuto cittadino. Portano in sé la memoria di un’altra terra contesa.
La convivenza, qui, è un dato di fatto privo di attrito. Nelle valli, il palestinese e l’ebreo occupano lo stesso spazio fisico, utilizzano gli stessi servizi, percorrono le stesse strade. La grandezza solo apparentemente oppressiva della montagna, rende irrilevanti le distinzioni umane, imponendo una pace dettata dalla geografia.
Il Parallelo con Torino: Il processo linguistico e la folla
Spostando l’osservazione su Torino, il caso dell’Imam Mohamed Shahin rivela l’assurdità del tribunale linguistico e la cecità meccanica delle fazioni.
Per vent’anni, quest’uomo è stato classificato nei registri sociali come “integrato”, un elemento di congiunzione funzionante. Improvvisamente, la classificazione cambia.
Se credevamo alla sua integrazione allora bisogna analizzare la sua posizione in un modo clinico: egli parla dal pulpito in arabo. Fuori, la città decodifica le sue parole con un altro dizionario. Si verifica un errore di traduzione fatale. L’Imam pronuncia Jihad che descrive sforzo interiore, l’apparato uditivo occidentale registra “Guerra”. L’Imam pronuncia Resistenza come dignità contro l’occupazione, l’apparato legale trascrive “Terrorismo”. Ma se non crediamo alla sua integrazione, allora, attorno a questo errore si attiva un fenomeno di massa paradossale. La piazza si riempie. Non sono solo fedeli, ma cittadini italiani, sindacati, rappresentanti di chiese cristiane che fino al giorno prima dialogavano con lui. Si forma una barriera umana di solidarietà.
Ma questa agitazione collettiva appare dettata non dalla conoscenza dei fatti, bensì da una necessità di posizionamento.
La frase pronunciata dall’Imam — “Sono d’accordo con quanto avvenuto” riferita al 7 ottobre — resta un oggetto contundente, ambiguo, potenzialmente una confessione di odio antiebraico. Eppure, una parte dell’opinione pubblica decide di scartare questo dato.
Il dubbio che egli possa realmente nutrire un’ostilità radicale viene rimosso d’ufficio. Se lo Stato lo accusa, per la logica degli schieramenti confusi, egli deve essere innocente. La sua figura viene ripulita dall’ambiguità non tramite prove, ma per acclamazione. La verità dell’uomo scompare, schiacciata tra chi lo santifica per ideologia e chi lo demonizza per decreto.
Attualmente, Shahin si trova in uno stato di sospensione tipicamente kafkiana: esiste un decreto di espulsione, ma l’esecuzione è congelata. È intrappolato tra i ricorsi e la richiesta di asilo, in attesa che un giudice decida se il suo corpo, in Egitto, sarà classificato come “vivo” o “eliminabile”.
Gaza, la terra martoriata
Laggiù, nella striscia di terra tra il fiume e il mare, la macchina della violenza continua a girare ciclicamente.
1948, 1956, 1967, 1973, 1982, 2006, e dal 7 ottobre ad oggi. Sono date su un registro infinito.
In quella terra, ogni generazione eredita la condanna dei padri come una colpa senza reato.
La lezione che forse dovremmo imparare guardando le Dolomiti è che la pace arriva solo quando si smette di discutere su chi aveva ragione nel passato e si inizia a decidere come sopravvivere insieme nel futuro. A Merano ci sono voluti due guerre mondiali, le tragiche Opzioni e un genocidio per capirlo. La speranza è che a Gaza non serva arrivare all’annientamento totale per comprendere che due popoli su una stessa terra o imparano a dividerla, o sono condannati a condividerne solo le tombe.
La lezione che si trae osservando le Dolomiti, tuttavia, non è una promessa, ma una constatazione d’archivio. A Merano, la quiete è arrivata solo dopo la catastrofe completa. Laggiù, tra Israele Gaza e la Cisgiordania, Egitto Siria e Stati Arabi, il processo è ancora in corso. Kafka, dal suo balcone del 1920, tossisce e continua a guardare. Sotto di lui, i treni del 1943 sono partiti, ma la logica che li ha mossi non si è mai fermata.

Gian Franco Pinna


Il Caso Shahin e l’Ombra della Storia

Il Caso Shahin e l’Ombra della Storia:
Da Torino al Medio Oriente

Introduzione: La miccia di Torino

Nel novembre 2025, la città di Torino diventa l’epicentro di una tensione che travalica i confini locali, collegando le Alpi alle polveriere del Medio Oriente. Il caso dell’Imam Mohamed Shahin, arrestato e destinatario di un decreto di espulsione, ha riacceso il dibattito su sicurezza nazionale, libertà di parola e le ripercussioni locali di conflitti globali. Questa vicenda non è un episodio isolato, ma il punto di caduta di una storia lunga oltre un secolo, fatta di parole non comprese, rivendicazioni territoriali e guerre cicliche.

1. Il Caso dell’Imam Mohamed Shahin

La vicenda ruota attorno alla figura di Mohamed Shahin, guida spirituale della moschea di via Saluzzo nel quartiere multietnico di San Salvario a Torino. Residente in Italia da oltre vent’anni, Shahin era stato a lungo considerato un esempio di integrazione e un interlocutore affidabile per le istituzioni e il dialogo interreligioso.

Dopo il 7 ottobre 2023, nel clima di “tolleranza zero” verso possibili radicalizzazioni, le autorità italiane hanno messo sotto osservazione le sue predicazioni. Il punto di rottura si è verificato a seguito di alcune dichiarazioni pubbliche pronunciate dall’Imam durante una manifestazione pro-Palestina nell’ottobre 2023, in cui ha definito l’attacco di Hamas «atto di resistenza» e «reazione a decenni di occupazione», aggiungendo «sono d’accordo con quanto avvenuto». Il Ministero dell’Interno ha interpretato tali parole come legittimazione del terrorismo e ha emanato un decreto di espulsione per motivi di sicurezza nazionale.

Approfondimento: Le parole cruciali e il Decreto

Il decreto di espulsione si fonda su frasi riportate e attribuite a Shahin in riferimento all’attacco del 7 ottobre 2023, considerate una legittimazione del terrorismo e un incitamento all’odio dalle autorità. Le espressioni chiave sono «atto di resistenza», «reazione a decenni di occupazione» e «sono d’accordo con quanto avvenuto».

Per il Viminale, tali parole configurano un rischio per la sicurezza dello Stato e giustificano il provvedimento.

Approfondimento: La Difesa e le Polemiche

La difesa dell’Imam e i suoi sostenitori (associazioni, sindacati, parte della comunità locale) sostengono che le frasi siano state decontestualizzate. Argomentano che Shahin si riferisse al principio politico della “resistenza all’occupazione” e non all’uccisione di civili, che avrebbe condannato in altre sedi. Parlano di un “processo alle intenzioni” linguistico e di un uso politico della paura. Attualmente (fine novembre 2025), l’espulsione è sospesa in attesa dei ricorsi legali e della valutazione del rischio di persecuzione politica in Egitto, suo paese d’origine.

2. La Reazione della Stampa e le Violenze

Il caso Shahin ha polarizzato immediatamente l’opinione pubblica, e i media hanno giocato un ruolo centrale. Il quotidiano torinese La Stampa ha seguito la vicenda con grande rilievo, riportando le motivazioni del decreto ministeriale e i dossier dell’antiterrorismo che descrivevano il rischio di radicalizzazione legato alla moschea.

Questa copertura giornalistica è stata contestata dai movimenti pro-Palestina e dai sostenitori dell’Imam, che hanno accusato il giornale di essere “complice della repressione” e di aver condotto una campagna mediatica ostile, dipingendo Shahin come un terrorista senza vero contraddittorio.

La tensione è degenerata in violenza fisica. Durante un corteo legato allo sciopero generale di fine novembre 2025, un gruppo di manifestanti ha assaltato la sede centrale de La Stampa, imbrattando i muri e danneggiando alcuni uffici; all’ingresso è stato rovesciato letame.

Approfondimento: L’atto di vandalismo e la risposta del Direttore

L’azione è stata rivendicata come risposta alla linea editoriale del giornale. Scritte offensive («Giornalisti terroristi», «Servi di Israele») sono comparse sulla facciata.

Il direttore de La Stampa ha condannato l’assalto come un attacco alla libertà di stampa, ribadendo che il giornale non si farà intimidire e continuerà a raccontare i fatti, inclusi quelli scomodi legati alle motivazioni dell’espulsione.

3. Il Contesto Storico: Israele e Palestina (Dall’800 a Oggi)

Per comprendere come le parole di un Imam a Torino possano scatenare simili reazioni, è necessario guardare alla radice del conflitto. La storia di quella terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è una sequenza di rivendicazioni contrapposte e guerre che dura da oltre un secolo.

Le Origini: Sionismo, Mandato Britannico e la Spartizione (Fine ‘800 – 1947)

Alla fine del XIX secolo nasce in Europa il Sionismo, il movimento politico che mira a creare un focolare nazionale ebraico per sfuggire all’antisemitismo. Inizia un’immigrazione ebraica in Palestina, allora sotto l’Impero Ottomano e abitata a maggioranza da arabi.
Il Sionismo è il movimento politico e nazionale fondato dal giornalista ungherese Theodor Herzl.
Il suo obiettivo era semplice e preciso:
dare al popolo ebraico, disperso nel mondo da secoli (la Diaspora) e perseguitato in Europa, uno Stato proprio in cui essere sicuro e sovrano.
Il ragionamento dei sionisti era: “Finché vivremo come ospiti in nazioni altrui, saremo sempre discriminati (vedi i pogrom russi o l’affare Dreyfus in Francia).
L’unica salvezza è tornare nella nostra terra ancestrale e costruirci uno Stato”.

Quella striscia di terra era densamente abitata e aveva una società funzionante (città, porti, commerci, agricoltura).
Fino ai primi del ‘900, la popolazione era composta per circa il 90% da arabi (musulmani e cristiani) e per il 10% da ebrei, che convivevano sotto l’Impero Ottomano.
Non c’era uno “Stato palestinese” indipendente (i palestinesi non hanno mai avuto un loro Stato sovrano moderno), ma era una provincia dell’Impero Ottomano e poi, dal 1920 al 1948, divenne un Mandato Britannico.
L’idea che fosse “terra senza popolo per un popolo senza terra” è stato un potente slogan sionista dell’epoca, ma storicamente falso. La terra era abitata, coltivata e posseduta da famiglie arabe da generazioni.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, la zona passa sotto il Mandato Britannico. Le tensioni tra le comunità crescono. Nel 1947, dopo l’orrore della Shoah, l’ONU propone la Risoluzione 181: spartizione del territorio in due Stati, uno ebraico (circa il 56% del territorio) e uno arabo (circa il 44%). La leadership sionista accetta, i principali attori arabi rifiutano, contestando la legittimità del piano. Gli arabi rifiutarono il piano ONU perché lo consideravano ingiusto: “Perché dobbiamo cedere metà della nostra terra a immigrati europei per colpe (l’Olocausto) commesse dall’Europa?”.

1948: La Nascita di Israele e la Nakba

Il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele. Il giorno seguente, alcuni Stati arabi attaccano. Israele vince la guerra e amplia il controllo oltre il piano ONU, con il cobtrollo del 78% del territorio.

Per i palestinesi, questo evento è la Nakba (Catastrofe): circa 700.000 persone fuggono o vengono espulse dalle loro case, generando la questione dei profughi che dura ancora oggi.

Per Nasser: Israele non era uno Stato legittimo, ma una “colonia occidentale” impiantata con la forza nel cuore del mondo arabo, che aveva cacciato gli abitanti originari. Per questo prometteva la “liberazione”: intendeva il ritorno dei profughi alle loro case e la restituzione della terra agli arabi.

Dal 1948 (anno di nascita di Israele), gli Stati arabi confinanti (soprattutto Egitto, Siria e Giordania) non avevano mai accettato l’esistenza dello Stato ebraico. • L’obiettivo arabo: Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, leader del panarabismo e molto popolare, prometteva pubblicamente la “distruzione di Israele” e la liberazione della Palestina. • La paura israeliana: Israele è un paese piccolissimo (in alcuni punti largo appena 15 km). Sentendosi circondato da nazioni ostili molto più grandi armate dall’Unione Sovietica, viveva nel terrore di un nuovo sterminio.

La Svolta del 1967: La Guerra dei Sei Giorni e l’Occupazione

Nel giugno 1967, Israele sconfigge Egitto, Giordania e Siria nella Guerra dei Sei Giorni, occupando:

  • La Cisgiordania e Gerusalemme Est (precedentemente sotto la Giordania).
  • La Striscia di Gaza e il Sinai (precedentemente sotto l’Egitto).
  • Le Alture del Golan (precedentemente sotto la Siria).

Nelle settimane precedenti la guerra, Nasser compie tre passi che Israele considera una dichiarazione di guerra di fatto:
1. Caccia l’ONU: Ordina alle truppe di pace dell’ONU (che stavano nel Sinai dal 1956 per dividere i due eserciti) di andarsene. L’ONU obbedisce.
2. Rimilitarizza il Sinai: Sposta massicce divisioni di carri armati egiziani proprio al confine con Israele.
3. Il “Casus Belli” (La scintilla): Il 22 maggio Nasser chiude gli Stretti di Tiran. Questo è il passaggio marittimo fondamentale per Israele per accedere al Mar Rosso e commerciare con l’Asia e l’Africa (dal porto di Eilat). Israele aveva avvertito anni prima: “Chiudere quegli stretti sarà considerato un atto di guerra”.
3. Il fronte Nord (Siria) Nel frattempo, al confine nord, la Siria bombardava costantemente i villaggi agricoli israeliani (i kibbutz) dalle Alture del Golan, una zona montuosa che domina la valle sottostante. Anche questo contribuiva a rendere la situazione esplosiva.
4. L’attacco preventivo di Israele Il governo israeliano si sentiva un cappio al collo: Egitto a sud, Siria a nord e Giordania a est avevano firmato un patto di difesa comune. L’esercito israeliano temeva che, aspettando il primo colpo arabo, il piccolo Stato sarebbe stato spazzato via. Così, all’alba del 5 giugno 1967, Israele gioca il tutto per tutto:
• Lancia l’Operazione Focus: quasi tutti gli aerei israeliani decollano e bombardano le basi aeree egiziane mentre i piloti nemici stanno facendo colazione.
• In poche ore, l’aviazione egiziana (la più potente del mondo arabo) viene distrutta al suolo. Israele ottiene il dominio totale dei cieli.

È l’inizio di un’occupazione militare che, in forme diverse, perdura fino ad oggi sui territori palestinesi.

La guerra è scoppiata perché gli Stati arabi volevano cancellare Israele dalla mappa (preparando l’assedio), e Israele ha deciso di colpire per primo per evitare di essere distrutto.
Il risultato (fondamentale per oggi):
In soli sei giorni, Israele non solo sopravvive, ma triplica il suo territorio occupando:
• Gaza e il Sinai (all’Egitto).
• La Cisgiordania e Gerusalemme Est (alla Giordania).
• Le Alture del Golan (alla Siria).
È qui che inizia ufficialmente l’”Occupazione” di cui si parla ancora oggi.

Dagli Accordi di Oslo all’Ascesa di Hamas (1993 – 2007)

Dopo anni di conflitti e la Prima Intifada, nel 1993 gli Accordi di Oslo tra Israele e l’OLP sembrano aprire alla pace e alla soluzione “Due Popoli, Due Stati”, creando l’Autorità Nazionale Palestinese.

Il processo però si arresta. Nel 2005 Israele si ritira unilateralmente dalla Striscia di Gaza. Nel 2006, il movimento islamista Hamas vince le elezioni palestinesi. Nel 2007, dopo uno scontro con Fatah, Hamas prende il controllo di Gaza. Da allora, Israele impone un blocco sulla Striscia, mentre Hamas utilizza il territorio per lanciare razzi verso Israele.

Il 7 Ottobre 2023 e la Guerra Attuale

Il 7 ottobre 2023, Hamas lancia un attacco terroristico senza precedenti nel sud di Israele, uccidendo circa 1.200 persone e prendendo oltre 200 ostaggi.

Israele risponde con una massiccia offensiva militare su Gaza, con l’obiettivo dichiarato di sradicare Hamas. Il conflitto provoca un alto numero di vittime palestinesi e una crisi umanitaria grave, infiammando le opinioni pubbliche mondiali.

Ma che cosa è Hamas?

Hamas è l’attore principale che governa la Striscia di Gaza da 18 anni.
Hamas nasce come movimento islamista (ramo dei Fratelli Musulmani) che rifiuta gli accordi di pace fatti dall’OLP (la fazione laica di Arafat) e predica la lotta armata per liberare tutta la Palestina (incluso il territorio di Israele).
• 2006 (Le elezioni): Hamas vince a sorpresa le elezioni legislative palestinesi in tutti i territori (Gaza e Cisgiordania), battendo il partito laico Fatah (quello del presidente Abu Mazen), considerato corrotto dalla popolazione.
• 2007 (La presa del potere): Poiché Fatah e la comunità internazionale non volevano lasciare il potere ad Hamas (considerata organizzazione terrorista), scoppia una guerra civile palestinese. Hamas caccia con la forza Fatah dalla Striscia di Gaza.
• La Palestina si spacca in due. La Cisgiordania resta sotto l’Autorità Nazionale Palestinese (Fatah/Abu Mazen); Gaza diventa un’entità separata governata solo da Hamas.
Hamas eletta ma anche autoeletta (ha eliminato la parte politica avversaria con metodi militari) è l’autorità di fatto a Gaza. Ha gestito la Striscia come un “mini-stato”, costruendo tunnel e armamenti da Gaza alla Cisgiordania per colpire Israele, mentre Israele rispondeva con un blocco economico soffocante. L’attacco del 7 ottobre 2023 è stato lanciato da Hamas partendo proprio da questo territorio che controllava in autonomia.

Oggi: Mediazioni e tregue (Novembre 2025)

Arrivando ai giorni nostri (novembre 2025), la situazione rimane critica. Si registrano periodi di tregua fragile e scambi di ostaggi, frutto di pressioni e mediazioni internazionali (Stati Uniti, Egitto, Qatar e altri attori regionali). Le radici del conflitto restano irrisolte e la tensione, come dimostrano i fatti di Torino, continua a riverberarsi ben lontano da Gaza.

La confusione tra “Ebreo” e “Sionista”

La confusione tra “Ebreo” e “Sionista” significato e percezione

Per gli Ebrei e gli Israeliani:
Essere sionista significa essere un patriota. Vuol dire credere che Israele abbia il diritto di esistere e di difendersi. Per loro, il sionismo è un movimento di liberazione nazionale: il ritorno degli indigeni alla loro terra dopo millenni di esilio. Senza il sionismo, dicono, gli ebrei sarebbero stati sterminati del tutto durante la Seconda Guerra Mondiale perché non avevano un posto dove scappare.
Per i Palestinesi e il mondo arabo:
Essere sionista significa essere un colonialista. Visto che la terra scelta dai sionisti era già abitata dagli arabi, per i palestinesi il sionismo è un’ideologia aggressiva, razzista ed espansionista che mira a rubare la loro terra e a cacciarli per fare posto agli immigrati ebrei. Per loro, il sionismo è la causa della loro catastrofe (la Nakba).

La confusione tra “Ebreo” e “Sionista”
Questo è il punto più delicato e importante.
• Ebreo indica l’appartenenza a un popolo o a una religione.
• Sionista indica l’adesione a un’idea politica (quella che Israele debba esistere come Stato ebraico).
Non tutti gli ebrei sono sionisti (esistono ebrei ultraortodossi o di sinistra radicale che criticano Israele), e non tutti i sionisti sono ebrei (ci sono molti cristiani, specialmente negli USA, che sostengono Israele per motivi religiosi).
Quando oggi si sente urlare nelle piazze “abbasso i sionisti”, tecnicamente si sta attaccando l’ideologia politica dello Stato di Israele, ma spesso il termine viene usato come una “copertura” per esprimere odio verso gli ebrei in generale (antisemitismo), rendendo il confine molto sottile. Il sionismo è il motore ideologico che ha creato Israele. Per chi ama Israele è un ideale nobile di sopravvivenza; per chi subisce l’occupazione è sinonimo di oppressione.

Saggio di approfondimento storico e di cronaca – Novembre 2025

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