Giacomo Francesco Moscato
C’è un momento, in montagna, in cui il pendio comincia a scricchiolare. Non è ancora una valanga, ma è il segnale che qualcosa si è rotto. Le Dolomiti oggi sono esattamente lì: nel punto in cui la bellezza continua a richiamare persone, ma la montagna non riesce più a sostenerle.
Prima di affrontare il cuore del problema, bisogna guardare le cause che ci hanno portato fin qui. Non sono misteriose, né improvvise. Sono sotto gli occhi di chiunque viva queste valli: l’accessibilità crescente, la potenza dei social, la trasformazione dei rifugi in luoghi di consumo, la perdita del senso del rischio. Le Dolomiti sono diventate un palcoscenico globale, e come ogni palcoscenico attirano pubblico, applausi, ma anche caos. Un gestore delle Tre Cime lo ha detto con una franchezza che vale più di mille analisi: «Arrivano in migliaia, tutti insieme, e nessuno si chiede se questo posto può sopportarlo».

Il risultato è un territorio che si trova a gestire flussi che nessuno aveva previsto. Non è un caso se proprio qui, nel cuore delle Dolomiti, si è arrivati a picchi di 7–8 mila persone al giorno in un singolo sito. È un numero incompatibile con la capacità di carico di un ecosistema alpino. È come pretendere che un sentiero stretto regga il traffico di un’autostrada.
Mentre noi discutiamo, altrove si agisce. Il numero chiuso non è un tabù internazionale: è una pratica consolidata nei siti UNESCO più fragili. Le Cinque Terre hanno iniziato a contingentare persino biciclette e canoe per proteggere un territorio che rischiava di cedere sotto il peso dei visitatori. La presidente del Parco, Donatella Bianchi, lo ha spiegato con una frase che sembra scritta per le Dolomiti: «Il territorio è bellissimo, ma è anche fragile». E non è un caso isolato. Machu Picchu vive da anni con ingressi contingentati. Le isole di Fernando de Noronha limitano l’accesso ai sentieri più delicati. Lord Howe Island, in Australia, permette la presenza contemporanea di sole quattrocento persone. Non per estetica, ma per sopravvivenza.
In Sardegna, l’Isola de L’Asinara aveva aperto il suo fragile ecosistema terra e mare ad un pubblico molto ridotto, ma dopo pochi anni la sete di fatturato ha aperto ad un pubblico che,oltre a camminare e guardare, deve farsi anche il bagno nella caletta, altrimenti non vale il biglietto.
E ora anche nel resto d’ Italia qualcosa si muove. Dal 2025, le Tre Cime di Lavaredo — simbolo assoluto delle Dolomiti — sono a numero chiuso, anche se aggiungerei la parola “parzialmente”, con prenotazione obbligatoria e un tetto giornaliero di accessi stabilito dal Comune di Auronzo. La motivazione è limpida: «L’afflusso incontrollato ha messo a dura prova l’ecosistema». È la prima volta che un comune dolomitico applica una misura così netta. È un precedente. È un varco. Ma è parziale. Alle Tre Cime si accede da vari sentieri a piedi, non solo in auto.
Il Lago di Braies è più o meno sullo stesso piano.
Eppure, nonostante questi precedenti, il resto delle Dolomiti rimane un territorio dove tutto è accessibile, sempre, comunque. Il paradosso è evidente: abbiamo uno dei patrimoni naturali più fragili d’Europa, ma lo trattiamo come un parco urbano senza orari. Il problema non è solo politico. È strutturale. Le Dolomiti non sono un parco nazionale unico, ma un mosaico di giurisdizioni: Veneto, Trentino, Alto Adige, Friuli, Tirolo Orientale. Ogni valle ha la sua porta, ogni porta ha il suo custode, e nessuno ha il potere di chiuderle tutte insieme. È come tentare di regolare il traffico di una città senza un semaforo centrale.
La frammentazione amministrativa è la prima grande crepa. La seconda è culturale: l’idea che “la montagna è di tutti” viene spesso interpretata come “la montagna è senza regole”. La terza è economica: molti comuni temono che limitare gli accessi significhi perdere introiti, quando i casi internazionali dimostrano l’esatto contrario. Alle Cinque Terre, dopo l’introduzione dei limiti, la qualità dell’esperienza è aumentata, i danni ambientali sono diminuiti e il valore percepito del territorio è cresciuto. Il turismo regolato non è turismo ridotto: è turismo migliore.
Il sovraffollamento non è un fastidio estetico: è un problema ecologico, logistico, identitario. Le ricerche mostrano che in alcuni giorni le Tre Cime hanno raggiunto picchi di 8.000 visitatori. È un numero che nessun ecosistema alpino può sopportare. Le Cinque Terre hanno dovuto limitare persino le biciclette elettriche perché «il territorio non reggeva più». E noi, che abbiamo sentieri sospesi su ghiaioni mobili, pareti verticali, ecosistemi delicatissimi, continuiamo a lasciare tutto aperto.
Il risultato è sotto gli occhi di chiunque salga in quota: erosione accelerata, rifiuti, fauna disturbata, rifugi trasformati in mense, sentieri congestionati come tangenziali. Il rischio non è il turismo: è la perdita della montagna come luogo di senso.
L’unica risposta strutturale, oggi, è quella delle Tre Cime. Il resto è affidato a iniziative locali, sperimentazioni, divieti temporanei, ordinanze stagionali. Non esiste un piano unitario, non esiste un’autorità di gestione, non esiste un modello condiviso. La Fondazione Dolomiti UNESCO ha un ruolo culturale, non normativo. I parchi naturali hanno competenze limitate. I comuni agiscono in ordine sparso. È come tentare di fermare una frana con le mani.
Eppure le soluzioni esistono, e non sono fantascienza. Sono già applicate altrove, spesso in contesti più complessi del nostro. La legge italiana n. 77/2006, che finanzia la tutela dei siti UNESCO, prevede esplicitamente la possibilità di definire la capacità di carico e di regolamentare gli accessi. Le linee guida UNESCO parlano chiaramente di “visitor management” come strumento essenziale per la conservazione dei siti naturali. Il modello perseguibile è chiaro: un sistema di accesso regolato, non chiuso; un turismo distribuito, non concentrato; una montagna vissuta, non consumata.
Il numero chiuso non è una barriera. È una cura. È un modo per dire che questo luogo è troppo prezioso per essere lasciato al caso. Le Dolomiti non hanno bisogno di meno persone: hanno bisogno di persone migliori, più consapevoli, più distribuite, più rispettose. E per arrivarci serve una regola semplice, antica, che ogni montanaro conosce: quando il pendio scricchiola, ti fermi.
Le Dolomiti stanno scricchiolando. Ora tocca a noi decidere se ascoltare quel suono.





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