di Gian Franco Pinna
In un tempo in cui il mondo sembra aver disimparato il linguaggio della tregua, c’è un luogo in Europa che funge da cattedra silenziosa. Sono le Dolomiti.
Oggi le vediamo come meraviglie geologiche, ma la loro bellezza nasconde una cicatrice.
Queste vette sono state il teatro di uno dei conflitti più assurdi e verticali della storia umana. Qui, uomini che parlavano lingue diverse si sono uccisi per guadagnare pochi metri di roccia.
Perché parlare di Natale proprio qui? Perché in nessun altro luogo risuona con tale urgenza fisica il comando più radicale e rivoluzionario mai pronunciato nella storia:
«Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
(Vangelo secondo Matteo, 5,44)
Non “amate il prossimo”, che è facile. Amate il nemico.
Le Dolomiti hanno preso questo comando e, con una fatica durata un secolo, lo hanno trasformato in vita quotidiana. Hanno trasformato le trincee in sentieri e i confini in punti di incontro. Il racconto che segue è un dispaccio da questo fronte: non più un fronte di guerra, ma un fronte di Spirito.
DISPACCIO DAL FRONTE DELLE DOLOMITI
(24-26 Dicembre 2025)
Dovreste venire quassù. Dovreste venire ora che la neve ha coperto tutto e ha reso le cose pulite. Qui il Natale non è una decorazione. È una cosa seria. È una faccenda di uomini e donne che vivono con la montagna e sanno aspettare. Non c’è niente di finto.
C’è un silenzio che fa rumore, quassù. È lo stesso silenzio che cercava Giuseppe Ungaretti quando era sepolto nel fango di queste trincee, cent’anni fa. Lui lo scrisse meglio di chiunque altro, e quelle parole mi sono tornate in mente guardando le croci nel cimitero di San Cassiano:
“Cessate d’uccidere i morti, non gridate più, non gridate se li volete ancora udire, se sperate di non perire.”
Il Natale qui serve a questo: a smettere di gridare.
Tutto comincia il 24 dicembre. La luce se ne va presto, alle quattro del pomeriggio la valle è già blu. Fa freddo. Un freddo che ti sveglia.
In una stube di legno, con la televisione accesa a basso volume, ho visto le immagini di quel comico toscano, Roberto Benigni. Era da Fazio l’altra sera. Non rideva. Aveva la faccia di chi ha visto troppe cose storte. Ha detto una cosa che è rimasta appesa nell’aria viziata del bar:
“La guerra è una volgarità immensa. Non è solo crudele, è volgare. Il mondo deve ripudiarla per sempre.”
La gente del maso ha annuito?. Qui la volgarità non piace. Qui piace la sostanza.
Poi ecco il nuovo Papa, Leone XIV, quell’americano agostiniano eletto a maggio. Non è uno che urla. È sobrio, riflessivo. Ha detto che la pace non è per i deboli, ma per chi ha il coraggio di non sparare. Chiede Tregua almeno a Natale.
Alle cinque, in Val Gardena, il suono è cambiato. Non erano più parole. Erano ottoni. Trombe e tromboni, lassù, in cima al campanile. Lo chiamano Turmblasen. Suonano nel vuoto. È un suono metallico e chiaro. Dice una cosa sola: fermatevi. Il lavoro è finito.
Poi sono entrato nel maso. Lì ho visto il rito del fumo, il Räuchern. Non è superstizione. È disciplina. Il padre di famiglia ha preso una padella di ferro vecchia, ci ha messo dentro le braci e l’incenso. Camminava stanza per stanza. Dietro di lui la famiglia pregava. Scacciavano il male. Benedicevano i letti dove dormono e la tavola dove mangiano. È un rito antico. Ti fa sentire al sicuro.
A mezzanotte, a Tres, la gente non guardava uno spettacolo. La gente era lo spettacolo. Camminavano per le strade strette, al freddo, finendo dentro la chiesa. A San Romedio si sale sulla roccia. C’è silenzio. La Messa lì non ha orpelli. È essenziale. C’è la roccia, c’è il freddo. È un cristianesimo solido.
Poi viene il giorno di Natale. La mattina del 25 l’aria è nitida. A Ortisei ho visto la gente uscire con il Tracht, il costume tradizionale. Non lo mettono per i turisti. Lo mettono per Dio. Uomini e donne camminano a testa alta. In chiesa i cori cantano in tre lingue: tedesco, italiano, ladino. Si intrecciano. Nessuno prevale. È una lingua sola, quella della valle.
Ma la verità l’ho vista il 26 dicembre, a Santo Stefano. A Tesido, in Val Pusteria, hanno portato fuori i cavalli per lo Stefaniritt.
La neve era alta. I cavalli fumavano dalle narici nell’aria gelida. Erano bestie forti, da lavoro. Il prete è passato e li ha benedetti con l’acqua santa. Uno per uno. L’acqua si ghiacciava sul pelo.
Lì capisci tutto. Capisci che Dio è anche nella stalla. Che la guerra è una volgarità, come ci ha ricordato Benigni, e che la pace è l’unica cosa che conta, come dice Papa Leone.
Non restate in pianura quest’anno. Venite a sentire il silenzio che ferma la guerra. È un Natale duro e bello. È un Natale vero.
LE DOLOMITI COME ESEMPIO
Questi riti, che sembrano immutabili, sono in realtà il frutto di una conquista. Non dobbiamo dimenticare che la pace nelle Dolomiti non è scontata.
Il dopoguerra qui è stato duro. È stato fatto di divisioni, di “Opzioni” forzate che strappavano le famiglie, di terrorismo negli anni ’60, di tralicci abbattuti e di diffidenza tra il mondo tedesco e quello italiano.
Eppure, queste valli hanno scelto una strada diversa. Non hanno cancellato le differenze, le hanno fatte sedere allo stesso tavolo. La pace qui non è uniformità: è la Messa cantata in tre lingue diverse dove nessuna voce copre l’altra. È la dimostrazione che culture diverse possono non solo coesistere, ma pregare insieme e benedire la stessa terra.
I riti del Natale dolomitico sono la liturgia di questa integrazione sofferta e riuscita. Ci insegnano che la pace non è un foglio di carta firmato dai potenti, ma è il vicino di casa che ti saluta nella tua lingua, è il pane spezzato insieme, è quel cavallo benedetto sulla neve.
Buon Natale e Buona Pace.




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