La Storia è un balcone da cui guardiamo sempre lo stesso orrore, che cambia solo uniforme e lingua.

Franz Kafka: Un respiro a Merano
Siamo nella primavera del 1920. Un uomo dalla costituzione fragile, il torace stretto, cammina lungo l’argine del Passirio. È il dottor Franz Kafka. È giunto a Merano per un’esigenza meccanica: i suoi polmoni sono guasti, la tubercolosi avanza, serve ripararli con l’aria. Il suo soggiorno è un transito provvisorio, un continuo spostamento di stanze: prima viene registrato all’Hotel Emma, poi, cercando una quiete che non esiste, si trasferisce alla Pensione Ottoburg, nel distretto di Maia Bassa.
Merano appare come un’entità geografica indefinita: i documenti dicono che è Italia, la memoria dice che è Austria, ma la città rimane sospesa in un vuoto mitteleuropeo, indifferente ai confini tracciati sulle carte.
Le giornate dell’uomo sono un protocollo medico: la “cura dell’aria”. Giace sul balcone, avvolto in strati di lana come un oggetto da conservare, e fissa le pareti di roccia delle montagne che recintano la valle. Compila rapporti epistolari a Milena Jesenská; in essi documenta minuziosamente la sua condizione di estraneità. Egli è un ebreo di lingua tedesca, un elemento che non trova incastro in nessun ingranaggio nazionale.
Egli nota che la città è popolata da altri come lui. La borghesia ebraica di Praga e Vienna frequenta questa valle come si frequenta una sala d’attesa di lusso. Qui la Legge non è ancora ostile; esistono sanatori conformi alle regole kosher, esiste una tolleranza formale. Kafka osserva questa comunità che esegue i rituali della normalità e della cultura, ignara che il meccanismo della Storia sta già lavorando per renderli obsoleti.
L’ombra della Grande Guerra
L’osservatore Kafka, nel 1920, percepisce che quelle montagne sono ancora calde di un attrito recente. Solo pochi anni prima, il sistema logico del mondo era collassato.
Nel 1914, il dialogo tra le cancellerie si era interrotto, sostituito dal rumore meccanico dell’artiglieria. L’Impero Austro-Ungarico, una struttura complessa che teneva insieme popoli diversi come in un archivio ordinato, si era disintegrato sotto la pressione di forze irrazionali: i nazionalismi. La minaccia non fu evitata perché nessuno comprese che tracciare linee su una mappa comporta la dissezione dei corpi che vi abitano sopra. La diplomazia divenne muta; la procedura passò alle armi.
Merano subì una metamorfosi funzionale. Gli alberghi, progettati per il piacere e la danza, vennero requisiti e riclassificati come lazaretti. I treni non scaricavano più villeggianti, ma materiale umano danneggiato proveniente dal fronte dell’Ortles. La città di cura divenne un deposito di carne dolente. La convivenza si incrinò: il vicino di casa fu improvvisamente catalogato come “nemico” in base alla lingua che pronunciava, trasformandosi da concittadino a sospetto.
Il Trauma delle “Opzioni”: L’obbligo di autodefinizione
Prima che il secondo conflitto mondiale si manifesti, accade un evento di pura burocrazia kafkiana: le Opzioni del 1939.
Due autorità supreme, Hitler e Mussolini, stipulano un contratto per rettificare l’anomalia etnica dell’Alto Adige. Agli abitanti viene notificato un ultimatum, un modulo da compilare: o si sceglie di essere cittadini del Reich, abbandonando la terra (categoria Optanten), o si sceglie di restare, accettando la cancellazione della propria identità culturale (categoria Dableiber).
L’esistenza umana viene ridotta a una scelta binaria amministrativa. Le famiglie vengono sezionate dalla decisione; il sospetto entra nelle case come una nebbia.
È qui che si manifesta la simmetria con la condizione palestinese. Come i tirolesi furono spostati da decisioni prese in stanze lontane, così i palestinesi nel 1948 e nel 1967 si trovarono di fronte all’assurdo giuridico: fuggire per preservare la vita fisica (diventando numeri in un campo profughi) o restare per preservare la terra (diventando corpi estranei sotto occupazione). È la condanna a dover abbandonare la propria casa per poter continuare a essere se stessi.
La frattura e il Tradimento: La procedura di eliminazione
Con l’occupazione nazista diretta dopo l’8 settembre 1943, la Zona d’Operazioni delle Prealpi viene annessa al Reich. La procedura di eliminazione degli ebrei, fino ad allora teorica, diventa esecutiva.
Tutto accade in prossimità del Kurhaus. Questo edificio, simbolo dell’estetica e dell’armonia, rimane immobile mentre la logica si inverte.
Contrapposto al palazzo della bellezza, dove la musica suonava fino a poco prima, si attiva il meccanismo dell’arresto. Il 16 settembre 1943, gli ebrei vengono prelevati dalle loro abitazioni. Non sono più residenti, sono detenuti.
La logistica prevede una tappa intermedia: vengono stoccati nella Casa del Balilla, edificio del regime locale. Successivamente, vengono caricati su convogli diretti al Lager di Reichenau, vicino a Innsbruck, un centro di smistamento. Da lì, mesi dopo, nel 1944, la pratica verrà evasa definitivamente con il trasferimento ad Auschwitz. Il silenzio delle montagne non offre protezione, ma sigilla l’isolamento.
La Storia attuale: Le Dolomiti come specchio
Nel tempo presente, nelle province dolomitiche, l’assetto sembra essersi stabilizzato.
A Merano, la comunità ebraica sussiste, ridotta nei numeri ma funzionante. La Sinagoga è aperta. Gli ebrei sono integrati nel sistema sociale, parlano le lingue del posto. La ferita del passato è segnalata da piccole placche di ottone nel selciato, le pietre d’inciampo: note a piè di pagina che ricordano chi è stato cancellato.
A Trento e nei territori limitrofi, si registra la presenza di un altro gruppo: i palestinesi. Non una comunità storica, ma individui sparsi — studenti, lavoratori — inseriti nel tessuto cittadino. Portano in sé la memoria di un’altra terra contesa.
La convivenza, qui, è un dato di fatto privo di attrito. Nelle valli, il palestinese e l’ebreo occupano lo stesso spazio fisico, utilizzano gli stessi servizi, percorrono le stesse strade. La grandezza solo apparentemente oppressiva della montagna, rende irrilevanti le distinzioni umane, imponendo una pace dettata dalla geografia.
Il Parallelo con Torino: Il processo linguistico e la folla
Spostando l’osservazione su Torino, il caso dell’Imam Mohamed Shahin rivela l’assurdità del tribunale linguistico e la cecità meccanica delle fazioni.
Per vent’anni, quest’uomo è stato classificato nei registri sociali come “integrato”, un elemento di congiunzione funzionante. Improvvisamente, la classificazione cambia.
Se credevamo alla sua integrazione allora bisogna analizzare la sua posizione in un modo clinico: egli parla dal pulpito in arabo. Fuori, la città decodifica le sue parole con un altro dizionario. Si verifica un errore di traduzione fatale. L’Imam pronuncia Jihad che descrive sforzo interiore, l’apparato uditivo occidentale registra “Guerra”. L’Imam pronuncia Resistenza come dignità contro l’occupazione, l’apparato legale trascrive “Terrorismo”. Ma se non crediamo alla sua integrazione, allora, attorno a questo errore si attiva un fenomeno di massa paradossale. La piazza si riempie. Non sono solo fedeli, ma cittadini italiani, sindacati, rappresentanti di chiese cristiane che fino al giorno prima dialogavano con lui. Si forma una barriera umana di solidarietà.
Ma questa agitazione collettiva appare dettata non dalla conoscenza dei fatti, bensì da una necessità di posizionamento.
La frase pronunciata dall’Imam — “Sono d’accordo con quanto avvenuto” riferita al 7 ottobre — resta un oggetto contundente, ambiguo, potenzialmente una confessione di odio antiebraico. Eppure, una parte dell’opinione pubblica decide di scartare questo dato.
Il dubbio che egli possa realmente nutrire un’ostilità radicale viene rimosso d’ufficio. Se lo Stato lo accusa, per la logica degli schieramenti confusi, egli deve essere innocente. La sua figura viene ripulita dall’ambiguità non tramite prove, ma per acclamazione. La verità dell’uomo scompare, schiacciata tra chi lo santifica per ideologia e chi lo demonizza per decreto.
Attualmente, Shahin si trova in uno stato di sospensione tipicamente kafkiana: esiste un decreto di espulsione, ma l’esecuzione è congelata. È intrappolato tra i ricorsi e la richiesta di asilo, in attesa che un giudice decida se il suo corpo, in Egitto, sarà classificato come “vivo” o “eliminabile”.
Gaza, la terra martoriata
Laggiù, nella striscia di terra tra il fiume e il mare, la macchina della violenza continua a girare ciclicamente.
1948, 1956, 1967, 1973, 1982, 2006, e dal 7 ottobre ad oggi. Sono date su un registro infinito.
In quella terra, ogni generazione eredita la condanna dei padri come una colpa senza reato.
La lezione che forse dovremmo imparare guardando le Dolomiti è che la pace arriva solo quando si smette di discutere su chi aveva ragione nel passato e si inizia a decidere come sopravvivere insieme nel futuro. A Merano ci sono voluti due guerre mondiali, le tragiche Opzioni e un genocidio per capirlo. La speranza è che a Gaza non serva arrivare all’annientamento totale per comprendere che due popoli su una stessa terra o imparano a dividerla, o sono condannati a condividerne solo le tombe.
La lezione che si trae osservando le Dolomiti, tuttavia, non è una promessa, ma una constatazione d’archivio. A Merano, la quiete è arrivata solo dopo la catastrofe completa. Laggiù, tra Israele Gaza e la Cisgiordania, Egitto Siria e Stati Arabi, il processo è ancora in corso. Kafka, dal suo balcone del 1920, tossisce e continua a guardare. Sotto di lui, i treni del 1943 sono partiti, ma la logica che li ha mossi non si è mai fermata.
Gian Franco Pinna
Il Caso Shahin e l’Ombra della Storia
Il Caso Shahin e l’Ombra della Storia:
Da Torino al Medio Oriente
Introduzione: La miccia di Torino
Nel novembre 2025, la città di Torino diventa l’epicentro di una tensione che travalica i confini locali, collegando le Alpi alle polveriere del Medio Oriente. Il caso dell’Imam Mohamed Shahin, arrestato e destinatario di un decreto di espulsione, ha riacceso il dibattito su sicurezza nazionale, libertà di parola e le ripercussioni locali di conflitti globali. Questa vicenda non è un episodio isolato, ma il punto di caduta di una storia lunga oltre un secolo, fatta di parole non comprese, rivendicazioni territoriali e guerre cicliche.
1. Il Caso dell’Imam Mohamed Shahin
La vicenda ruota attorno alla figura di Mohamed Shahin, guida spirituale della moschea di via Saluzzo nel quartiere multietnico di San Salvario a Torino. Residente in Italia da oltre vent’anni, Shahin era stato a lungo considerato un esempio di integrazione e un interlocutore affidabile per le istituzioni e il dialogo interreligioso.
Dopo il 7 ottobre 2023, nel clima di “tolleranza zero” verso possibili radicalizzazioni, le autorità italiane hanno messo sotto osservazione le sue predicazioni. Il punto di rottura si è verificato a seguito di alcune dichiarazioni pubbliche pronunciate dall’Imam durante una manifestazione pro-Palestina nell’ottobre 2023, in cui ha definito l’attacco di Hamas «atto di resistenza» e «reazione a decenni di occupazione», aggiungendo «sono d’accordo con quanto avvenuto». Il Ministero dell’Interno ha interpretato tali parole come legittimazione del terrorismo e ha emanato un decreto di espulsione per motivi di sicurezza nazionale.
2. La Reazione della Stampa e le Violenze
Il caso Shahin ha polarizzato immediatamente l’opinione pubblica, e i media hanno giocato un ruolo centrale. Il quotidiano torinese La Stampa ha seguito la vicenda con grande rilievo, riportando le motivazioni del decreto ministeriale e i dossier dell’antiterrorismo che descrivevano il rischio di radicalizzazione legato alla moschea.
Questa copertura giornalistica è stata contestata dai movimenti pro-Palestina e dai sostenitori dell’Imam, che hanno accusato il giornale di essere “complice della repressione” e di aver condotto una campagna mediatica ostile, dipingendo Shahin come un terrorista senza vero contraddittorio.
La tensione è degenerata in violenza fisica. Durante un corteo legato allo sciopero generale di fine novembre 2025, un gruppo di manifestanti ha assaltato la sede centrale de La Stampa, imbrattando i muri e danneggiando alcuni uffici; all’ingresso è stato rovesciato letame.
3. Il Contesto Storico: Israele e Palestina (Dall’800 a Oggi)
Per comprendere come le parole di un Imam a Torino possano scatenare simili reazioni, è necessario guardare alla radice del conflitto. La storia di quella terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è una sequenza di rivendicazioni contrapposte e guerre che dura da oltre un secolo.





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