di Gian Franco Pinna


Gian Franco Pinna

di Gian Franco Pinna

Editoriale

A cinquanta giorni dalle Olimpiadi, la Federazione Internazionale Sci richiama l’Italia per i ritardi nell’innevamento di Livigno, definendoli “inspiegabili”. La produzione di neve artificiale, che sarebbe dovuta partire giorni fa, è ferma per un guasto tecnico e per l’assenza dei fondi statali necessari agli organizzatori locali.

Un doppio blocco che la FIS giudica inaccettabile, soprattutto perché le discipline freestyle richiedono enormi quantità di neve e settimane di modellazione.

Il presidente Johan Eliasch parla di una situazione critica e chiede un’accelerazione immediata, mentre la federazione monitora gli sviluppi con telefonate quotidiane. Il rischio è che il ritardo diventi irreversibile. Cortina, invece, non rientra nel richiamo: qui l’innevamento è attivo e la stagione è già partita.

Livigno in crisi di neve? Spesso in montagna si sente dire che la neve è a Livigno. In effetti, si potrebbe pensare che sia così, perché la località si trova tra i 1600 e i 1800 metri, mentre Cortina è a 1300 metri. In questi giorni si sta aprendo un dibattito sulla crisi bianca nelle Alpi, ovvero sul fatto che cada meno neve. Per capire davvero cosa sta accadendo, è necessario entrare nell’atmosfera invernale e osservare i dati.

Livigno o Cortina: chi ha davvero più neve naturale?

A prima vista sembra che Livigno sia sempre più innevata di Cortina. Ma è un’impressione. Se guardiamo ai dati climatici, Cortina riceve più neve naturale: le Dolomiti ampezzane sono colpite più spesso dalle perturbazioni atlantiche e mediterranee, che scaricano grandi quantità di neve grazie all’effetto orografico delle Tofane e del Cristallo. In media, l’area ampezzana registra più giorni di precipitazione nevosa e accumuli stagionali superiori rispetto alla Valtellina.

Livigno, invece, è molto più fredda. Le minime invernali scendono spesso sotto i –15 °C e questo permette alla neve, anche se poca, di rimanere al suolo per settimane senza sciogliersi. Il paese appare bianco da dicembre ad aprile, creando l’idea di un innevamento più abbondante. Ma dal punto di vista delle precipitazioni, Livigno è un catino secco: le perturbazioni arrivano attenuate e gli accumuli naturali sono inferiori rispetto alle Dolomiti orientali.

La differenza è quindi semplice: Cortina è più nevosa, Livigno è più fredda. Una località riceve più neve, l’altra la conserva meglio. È questo che inganna l’occhio e alimenta la percezione che Livigno sia sempre più innevata, anche quando i dati dicono il contrario.

Il freddo è alleato della neve: l’aiuta a scendere e la mantiene. Livigno, a 1800 metri, è ancora nella linea di demarcazione del nuovo zero termico, cioè nella quota ideale perché la neve cada e rimanga. Cortina non lo è più. Il limite della neve si sta alzando e oggi si colloca attorno ai 1500 metri. Restando nei centri abitati (escludendo piste e boschi, che si trovano più in alto), la neve valtellinese è diversa da quella ampezzana e, in generale, da quella di tutti i centri abitati dolomitici. A Livigno nevica. Nei paesi dolomitici piove, nevica, nevischia, spesso con cambi repentini durante la stessa precipitazione. Anche quando a Cortina nevica di più, la neve non è più quella che eravamo abituati a vedere e che pian piano stiamo dimenticando. Come abbiamo dimenticato il profumo della neve prima che cada, un’esperienza che molti giovani non conoscono più.

Negli ultimi due inverni le Dolomiti hanno vissuto un doppio colpo: dicembre 2024 caldo e poco nevoso, seguito da un dicembre 2025 ancora peggiore, con deficit nevosi nazionali che hanno raggiunto il 63% rispetto alle medie storiche.
La domanda che molti si fanno è inevitabile: siamo davanti a un’anomalia passeggera o a un trend irreversibile?

Le risposte arrivano dai rapporti scientifici più autorevoli, e non sono rassicuranti.


La nevicata di inizio dicembre come la vediamo oggi, alle soglie del Natale.

Sulle Dolomiti la neve è sempre più rara a dicembre e complessivamente nell’intero periodo invernale sta diminuendo in modo sistematico. Non si tratta più di oscillazioni stagionali, ma di un cambiamento strutturale documentato da un secolo di dati, confermato dagli inverni 2024 e 2025 e previsto anche per il 2026.
L’intero sistema dolomitico — dalle valli trentine a quelle altoatesine, bellunesi, friulane e fino al Tirolo orientale — mostra lo stesso segnale.

Un trend negativo che si ripete 2024 e 2025, due inverni gemelli

Fondazione CIMA

Gli ultimi anni mostrano un pattern chiaro: dicembre risulta sistematicamente più caldo e meno nevoso rispetto al passato.
Il 2025 non fa eccezione: l’inverno meteorologico è iniziato in modo “particolarmente critico”, con ripercussioni ecosistemiche e turistiche evidenti.

Il 2024 era già stato un anno difficile, con neve in calo e ghiacciai in ritirata su tutto l’arco alpino.
Il 2025 ha aggravato la situazione: secondo la Fondazione CIMA, il deficit nevoso nazionale ha raggiunto il 63% rispetto alle medie 2011–2023.

Due anni consecutivi di forte carenza nevosa non sono un caso: sono un segnale.

In climatologia, viene interpretato come una rottura di regime.

Cioè il passaggio da un sistema che oscillava attorno a una media stabile a un sistema che si sta stabilizzando su una nuova normalità, più calda e meno nevosa. È un cambiamento strutturale.


Il confronto storico: il Novecento contro gli anni 2000

Uno studio coordinato da Eurac Research, basato su dati dal 1920 al 2020, mostra che le nevicate sulle Alpi sono diminuite del 34 per cento in un secolo. Sul versante sud, occidentale e orientale, che include le Dolomiti, il calo arriva quasi al 50 per cento. Sotto i 2000 metri la neve è molto più rara rispetto al passato. In altre parole, nevica la metà rispetto a cento anni fa.

Gli studi mostrano che le precipitazioni totali non sono diminuite, ma le temperature più alte trasformano la neve in pioggia. È un cambiamento strutturale, non un ciclo temporaneo.


Le previsioni per l’inverno 2026

I modelli stagionali dei principali centri meteorologici europei indicano temperature sopra la media, precipitazioni nella media ma con più pioggia e meno neve sotto i 1800–2000 metri. La neve naturale è garantita solo sopra i 2200–2400 metri. Sono possibili brevi irruzioni fredde, insufficienti però a compensare il deficit. Il quadro è chiaro: l’inverno 2026 non invertirà la tendenza.


Cosa comporta davvero l’assenza di neve?

La neve non è solo un elemento estetico o turistico. È un pilastro ecologico, idrologico e geologico delle Dolomiti. La neve immagazzina acqua e la rilascia lentamente in primavera. Se manca, i torrenti si svuotano prima, aumenta il rischio di siccità estiva, l’agricoltura soffre e gli acquedotti entrano in stress.

Dal punto di vista geologico, la neve protegge le pareti dal gelo-disgelo. Senza neve, gli sbalzi termici aumentano e cresce il rischio di frane, crolli e instabilità dei versanti. Il ritiro dei ghiacciai e la mancanza di neve stanno già accelerando l’erosione.

Il caso Birch e il legame con il Sorapiss.
Il crollo del ghiacciaio di Birch, avvenuto in Svizzera nel 2025, ha mostrato in modo diretto cosa significa la perdita di stabilità dei ghiacciai. Il permafrost in collasso ha liberato una massa enorme di roccia e ghiaccio, travolgendo parte del villaggio di Blatten. È stato un evento simbolo, in un anno che ha registrato quaranta frane in alta quota sulle Alpi.
Nelle Dolomiti, il caso della frana del Sorapiss, nella zona del Monte Marcora, è diventato il simbolo della fragilità geologica locale. L’assenza di un manto nevoso costante e il progressivo scioglimento del permafrost hanno reso instabili pareti storicamente solide. Le scariche di detriti del 2024 e 2025 hanno modificato il profilo della montagna e messo in crisi sentieri e ferrate.

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Ecosistemi: microbi, funghi, insetti e fauna in crisi

La neve è molto più di un semplice manto bianco: è una coperta termica che isola il suolo dal gelo e permette alla vita di resistere nei mesi più duri. Sotto di essa i microrganismi continuano a lavorare, il terreno rimane vivo e gli animali trovano rifugio. Per molte specie alpine – dalle lepri ai galli forcelli, fino ai piccoli roditori – quel cuscino freddo è una protezione indispensabile che consente di risparmiare energia e superare l’inverno. Anche le piante dipendono dalla neve: il loro ciclo vegetativo è regolato proprio da quella copertura che le preserva dalle escursioni termiche e ne scandisce i tempi.

Quando la neve manca, tutto questo equilibrio si spezza. Il suolo gela più in profondità, i microrganismi muoiono e la catena biologica si indebolisce. Gli animali, privati dell’isolamento naturale, consumano più energia per scaldarsi e rischiano la fame. Le piante, ingannate da un clima più mite, anticipano la fioritura e vengono poi bruciate dal gelo improvviso. È un effetto domino silenzioso, ma potentissimo, che trasforma l’inverno in una stagione ostile invece che protettiva.

Uomo e turismo: la neve artificiale non basta

La neve programmata può salvare le piste, ma richiede temperature sotto i –2 °C, inoltre consuma acqua ed energia e ovviamente, non sostituisce la neve naturale su boschi, cime e versanti

La neve artificiale non protegge il territorio, non nutre gli ecosistemi, non ricarica le falde.

È una soluzione tecnica, non ecologica, applicata alle piste per sciare, per permettere un divertimento, uno svago e uno sport. Una macchina ben oliata e tecnologia che fattura.

Lo sci, nelle Alpi, non è soltanto un’attività sportiva: è una delle infrastrutture economiche più importanti dell’intero arco montano. Il sistema degli impianti di risalita genera ogni anno un fatturato diretto che supera il miliardo di euro, mentre l’indotto complessivo, tra alberghi, ristorazione, scuole sci, noleggi, commercio e servizi, raggiunge valori che oscillano tra gli otto e i dodici miliardi. È un’economia che tiene in piedi intere vallate e che coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori, dai maestri di sci agli addetti agli impianti, dagli albergatori ai ristoratori, fino alle attività commerciali che vivono quasi esclusivamente dei flussi invernali.

In Italia si contano circa quattro milioni di praticanti degli sport invernali, un bacino che alimenta un movimento turistico capace di trasformare l’inverno nella stagione più redditizia per molte località alpine. Il turismo della neve, secondo le analisi più recenti, vale oltre undici miliardi di euro nella sola stagione 2024–2025, un dato che conferma quanto la montagna continui a dipendere dalla presenza della neve, naturale o artificiale che sia.

Questo sistema, però, vive oggi una fragilità crescente. La neve non è soltanto un elemento estetico o un richiamo turistico: è la condizione che permette allo sci di esistere e all’economia alpina di funzionare. Senza neve, l’intero modello entra in crisi. Le stazioni sciistiche devono investire di più per garantire l’innevamento programmato, gli operatori turistici vedono accorciarsi la stagione e le comunità locali rischiano di perdere la loro principale fonte di reddito. È un equilibrio delicato, che si regge su un clima sempre meno prevedibile e su un territorio che sta cambiando più velocemente della capacità di adattamento delle sue infrastrutture.


Lo status dei ghiacciai: il cuore ferito delle Dolomiti

La diminuzione della neve sulle Dolomiti è scientificamente documentata, in accelerazione negli ultimi 20 anni, già visibile negli inverni 2024 e 2025, destinata a proseguire nel 2026. E non riguarda solo il turismo.

La neve è protezione per le rocce, vita per gli ecosistemi, acqua per le valli, stabilità per i versanti, equilibrio per la fauna, identità culturale delle Dolomiti


Se la neve è il respiro stagionale della montagna, i ghiacciai ne sono la memoria storica. Tuttavia, i dati della Campagna Glaciologica 2025 confermano che questa memoria sta svanendo.

La Marmolada: la Regina in agonia

La Marmolada ha vissuto un 2025 drammatico. La fronte è arretrata di sette metri in un solo anno, lo spessore continua a diminuire e le finestre rocciose si allargano. Gli scienziati dell’Università di Padova e del Comitato Glaciologico Italiano confermano che, a questo ritmo, il ghiacciaio è destinato a scomparire entro il 2050, diventando un ghiacciaio relitto.

Il permafrost sotto i 3000 metri sta scomparendo, rendendo instabili pareti e percorsi d’alta quota. Le frane del Marcora ne sono un esempio evidente.

Il Permafrost e il Marcora

Come anticipato, la stabilità delle pareti è il secondo fronte della crisi. Le frane avvenute nel giugno 2025 sul Monte Marcora non sono episodi isolati, ma la conseguenza diretta della perdita del ghiaccio profondo. Il permafrost, che agisce da collante, sta scomparendo sotto i 3000 metri, rendendo le ferrate (come la Berti, rimasta chiusa per gravi danni) e i sentieri d’alta quota percorsi sempre più imprevedibili.


Verso una montagna che sarà diversa.

L’analisi degli inverni 2024 e 2025, unita alle previsioni per il 2026, ci consegna una verità definitiva: le Dolomiti non stanno attraversando una crisi passeggera, ma una metamorfosi profonda.

Il passaggio dal “bianco perenne” al “grigio stagionale” non colpisce solo l’estetica o l’economia dello sci. È un cambiamento che riscrive le regole della vita in quota.

La montagna “immobile” delle cartoline sta diventando un ambiente dinamico e fragile, dove il distacco di roccia e il ritiro dei ghiacci sono i nuovi parametri con cui convivere. Siamo alla fine della stabilità

Senza la riserva naturale della neve e dei ghiacci, la gestione idrica diventerà la vera emergenza delle valli, dal Bellunese al Tirolo, influenzando agricoltura ed energia. Avremo nuove sfide per l’acqua.

Occorre una nuova consapevolezza: accettare che la neve artificiale possa salvare una stagione turistica, ma non un ecosistema, è il primo passo per una gestione del territorio che sia adattiva e non solo reattiva.

Le Dolomiti restano un Patrimonio dell’Umanità, ma hanno perso la loro corazza di ghiaccio. Il racconto di questi anni ne è la cronaca drammatica; tuttavia, il manuale d’istruzioni per una montagna diversa — più nuda, più difficile e fragile — spetta a noi redigerlo con cura. È necessario definire nuove leggi e, soprattutto, avere il coraggio di attuarle.

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